Le disomogeneità regionali rallentano l’eradicazione dell’epatite C

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È ormai passato un anno dalla liberalizzazione dell’accesso ai farmaci antivirali innovativi in regime di rimborsabilità da parte del Servizio sanitario nazionale per tutti i pazienti affetti dalla malattia, ma la via verso l’eradicazione dell’epatite C cronica grazie all’utilizzo dei nuovi Direct antiviral agents (DAAs) è ancora lontana, come pure l’obiettivo di trattare 80 mila pazienti l’anno nel triennio 2017-2019 stabilito da Aifa un anno fa. L’Agenzia del Farmaco puntava a eradicare l’infezione da Hvc in Italia entro il 2020, anche grazie ad un aumento dei centri di cura autorizzati di circa cinquanta unità.

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Il punto della situazione, che vede una reale possibilità di cura solo per circa la metà dei pazienti italiani con epatite C cronica, è completato da un quadro regionale assai frammentato, con assenza di percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali (PDTA) condivisi, insufficiente ricorso al Fondo per i farmaci innovativi (1,5 miliardi di euro l’importo stanziato per il triennio) e un numero ancora troppo scarso di strutture sanitarie autorizzate alla prescrizione e distribuzione degli antivirali. I dati sono forniti dal dossier “Epatite C – Indagine conoscitiva sull’accesso ai farmaci nelle regioni italiane”, realizzato da EpaC Onlus (lo trovi qui).
L’indagine rileva uno scenario critico circa le caratteristiche delle strutture autorizzate in ciascuna Regione ma, soprattutto, le stesse Regioni – eccetto Sicilia e Veneto – non hanno predisposto strategie adeguate per la presa in carico di tutti i pazienti già diagnosticati. Continuiamo a ricevere segnalazioni di pazienti con cirrosi che dalle strutture non autorizzate non sono ancora stati inviati alle strutture autorizzate per essere curati immediatamente, e questo è inaccettabile”, ha commentato il presidente di EpaC Onlus, Ivan Gardini, nel presentare il rapporto.

Riorganizzare le reti di presa in carico

Siamo già alla seconda generazione di farmaci innovativi della categoria dei DAAs, un passaggio che ha visto in poco più delle Regioni italiane (52%) anche un parallelo aumento dei reparti abilitati a prescriverli. La regione più virtuosa in tal senso è stata il Veneto, che ha autorizzato quattro nuovi centri prescrittori. I pazienti curati nel 2017 sono stati poco meno di 45 mila, in aumento del 45% circa rispetto al 2015; secondo EpaC, però, tale incremento è ancora distante dal target di 6.667 pazienti/mese avviati al trattamento, necessario per raggiungere gli obiettivi prefissati da Aifa. “Diverse strutture ospedaliere hanno esaurito gran parte dei pazienti in lista di attesa ed è giunto il momento di riorganizzare le reti di cura per la presa in carico di tutti i pazienti, nessuno escluso”, ha sottolineato Gardini.
Molto indietro appare anche la situazione nella realizzazione dei percorsi diagnostico-terapeutici assistenziali, in essere solo in un quarto delle regioni (Lombardia, Umbria, Campania, Basilicata, Sicilia), mentre un altro quarto per il momento ha preparato solo dei documenti d’indirizzo e niente esiste nell’altra metà. Solo la Sicilia (e presto anche il Veneto) si è dimostrata attiva nel mettere a punto percorsi di presa in carico che vedono il coinvolgimento sistematico anche dei medici di famiglia, e presto anche delle carceri e SerD.
Dovrebbe essere elaborato un Pdta unico nazionale condiviso da tutte le Regioni nel rispetto delle singole autonomie e strutture organizzative, che contenga pochi punti operativi ma essenziali per tracciare percorsi di presa in carico e avviamento alla cure”, è il suggerimento di Ivan Gardini

Una filiera per molti versi opaca

Anche la governance dell’accesso ai trattamenti innovativi per l’epatite C è per molti versi ancora opaca, ed EpaC segnala la difficoltà per i pazienti di molte regioni di reperire gli atti amministrativi e i documenti necessari. La disomogeneità delle strutture autorizzate sul territorio rende a volte necessari anche lunghi spostamenti per raggiungere un luogo di cura, con allungamento anche dei tempi d’attesa. La Onlus denuncia anche la mancanza di piani specifici per la presa in carico dei pazienti appartenenti alle popolazioni speciali (i cosiddetti hard to reach) da un lato e dei medici di medicina generale dall’altro, come pure di un modello di integrazione per la collaborazione tra centri autorizzati e non.
EpaC lancia anche un allarme circa la possibilità di storno delle risorse non utilizzate del Fondo farmaci innovativi, che ai sensi dell’art. 30 d.lgs 50/2017 dovrebbero far ritorno al Fondo Sanitario Nazionale. La Onlus ritiene tale norma disincentivante, e preferirebbe vedere una riallocazione delle risorse non impiegate a favore della messa a disposizione di personale aggiuntivo per alcuni centri autorizzati che attualmente sono giunti al limite della loro capacità prescrittiva, o comunque all’interno delle attività a favore dell’eradicazione della malattia. Il presidente di EpaC suggerisce anche la messa in atto di semplici attività, “come ad esempio procedere con un’analisi delle performance prescrittive di tutti i centri autorizzati e intervenire sulle anomalie, ma anche effettuare un audit nelle strutture/reparti/micro e macro comunità che hanno in carico pazienti mai avviati a un Centro autorizzato”. Tali informazioni potrebbero aiutare a ridefinire la Rete regionale di presa in carico.

Un’altra richiesta avanzata dall’associazione riguarda la disponibilità di regole chiare per il follow up dei pazienti guariti e indicazioni precise su come e quando indirizzarli definitivamente al medico di famiglia, oltre che linee guida sugli screening per fare emergere pazienti inconsapevoli dell’infezione nella popolazione generale e sottogruppi a maggiore rischio. “Infine, riteniamo indispensabile e doveroso prima ammonire e poi sanzionare il personale sanitario che consapevolmente trattiene e non invia alle strutture autorizzate pazienti anche con grave malattia epatica, poiché la malattia peggiora inesorabilmente e viene cagionato un danno alla salute talvolta anche fatale. In qualunque caso, sarebbe già un grande passo in avanti se ogni Assessore alla Salute nominasse un incaricato che si occupi esclusivamente del piano di eliminazione”, è il suggerimento conclusivo di Ivan Gardini.