Anziani e telemedicina

La pandemia da Covid-19 ha indotto uno shift verso la telemedicina che ha interessato tutti gli aspetti dell’assistenza sanitaria, instradandola sempre più verso un servizio a distanza che sta coinvolgendo anche i farmacisti

La digitalizzazione offre anche nuovi strumenti di sicurezza nella dispensazione: come ha detto il presidente Fofi Andrea Mandelli alla recente 2° giornata nazionale per la sicurezza delle cure, il farmacista è l’ultimo professionista con cui il cittadino ha un contatto diretto prima di cominciare ad assumere il farmaco prescritto.

Oggi la farmacia dispone di strumenti di digitalizzazione completa dei dati di ogni paziente attraverso il Fascicolo sanitario elettronico e il Dossier farmaceutico di volta in volta aggiornato dal farmacista che traccia tutti i medicinali da lui assunti, così da prevenire, per esempio, interazioni e doppie prescrizioni.

Maggiore efficacia

In Usa, dove la digitalizzazione e la tele-heatlh sono partite molto prima che da noi, si è passati già dalla “fase 1” della sicurezza alla “fase 2” dell’efficacia: quest’estate il Patient-centered outcomes research institute, creato dal Congresso per valutare a livello nazionale l’esito delle cure, ha elargito un grant di tre milioni di dollari alla Cornell University per la messa a punto di uno studio nazionale sugli esiti della tele-health nei pazienti con patologie croniche rispetto ai risultati riportati con l’approccio clinico tradizionale.

Oltre le disparità assistenziali

Altri due milioni e mezzo di dollari sono andati alla University of Pennsylvania per lo sviluppo di un programma di monitoraggio telematico che potesse ridurre le disparità assistenziali di neri e ispanici emersi da numerosi studi.

Una situazione alla quale in Italia fanno eco i risultati delle indagini condotte dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane secondo cui, nelle province di Caserta e Napoli, per esempio, l’aspettativa di vita è inferiore di due anni rispetto al resto d’Italia e in tutta la Penisola la scolarità ha effetti evidenti sulla salute: chi ha conseguito la laurea vive più a lungo di chi non ha neppure la licenza elementare, 5,2 anni i maschi e 2,7 anni le donne.

L’idea Usa si scontra, però, con realtà sociali ancora irrisolte, sia al di là che al di qua dell’Atlantico, e sulle quali il farmacista può, in virtù della sua distribuzione capillare sul territorio, mettere tutt’al più una “pezza”, qui come in America.

Inoltre, questa stessa capillarità che lo caratterizza deve essere posta alla base anche della fruizione dell’informazione e dei servizi sanitari e rappresenta un caposaldo fondamentale della nuova telemedicina: bene sta facendo, infatti, il Governo italiano a progettare una copertura internet il più possibile completa della Penisola.

Non più opzione emergenziale

«La telemedicina non va più considerata un’opzione o un add-on per superare lo stato emergenziale generato dalla pandemia» ha scritto quest’estate, su Telemedicine and E-Health, Stefano Omboni dell’Italian institute of telemedicine di Varese e della Scienze and state University di Mosca, «ma un armamentario importante e costante dell’assistenza di cui tutti gli operatori sanitari si devono sempre avvalere».

A causa della limitata disponibilità e della ridotta diffusione della banda larga per i servizi di telemedicina, si legge nella pubblicazione, durante la pandemia l’Italia si è trovata impreparata a gestire i pazienti cronici in lockdown: i terminali periferici erano scarsi e diffusi in maniera disomogenea, frenati dalle pesanti regole imposte dalla privacy, poco integrati con i vari sistemi operativi e malamente connessi con i sistemi online del Ssn che, come sanno i farmacisti, già ogni tanto danno problemi anche con le ricette virtuali dematerializzate.

La mancanza di una chiara regolamentazione per l’assenza di linee guida e quella di una prospettiva di rimborso per questo tipo di prestazioni ha portato a un rallentato sviluppo della telemedicina nel nostro Paese, sbloccato fin troppo tardi dal ministero della Salute dopo ormai due mesi dall’inizio della pandemia tramite un decreto ad hoc per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione che, però, finora ha portato solo all’uso degli smartphone per il tracciamento dei contagi.

Fa specie constatare come, nonostante tutto questo ritardo e queste difficoltà, già da anni oltre un migliaio di farmacie comunali abbiamo efficacemente seguito, invece, tramite telemonitoraggio e teleconsulting 140.000 pazienti ipertesi di tutt’Italia in collaborazione con oltre 250 generalisti.

Anziani impreparati

Sono proprio i pazienti cronici come gli ipertesi il banco di prova della telemedicina: il Covid è stato uno spartiacque che ha stratificato l’assistenza per categorie di pazienti, ma ora sembra emergere un importante problema. La disparità assistenziale correlata non solo al tipo di patologia, ma anche all’età dei pazienti.

Lo indicano alcuni studi pubblicati di recente su Jama internal medicine basati su dati rappresentativi del campione dei beneficiari Usa del servizio sanitario nazionale medicare.

Nel primo studio è stata valutata la capacità di 4.525 anziani di usufruire dei servizi telematici. La loro valutazione è stata effettuata sulla base di sei caratteristiche:

  • la capacità di relazionarsi telefonicamente;

• i problemi a parlare o a farsi capire dall’interlocutore;

• la diagnosi di possibile demenza;

• la compromissione del visus;

• l’indisponibilità di collegamento internet o incapacità a utilizzarlo;

• l’impossibilità/incapacità di spedire e-mail o frasi di testo o di avere a disposizione collegamenti alla rete nel mese precedente la valutazione.

Il 38% dei soggetti valutati è risultato impreparato a sostenere una video-visita e il 20% non sapeva gestire neppure una semplice visita telefonica.

I più impreparati alla telemedicina (72%) avevano un’età superiore agli 85 anni, spesso erano portatori di comorbidità, avevano una bassa scolarità, erano di genere maschile per lo più single e appartenevano alle classi meno agiate.

Ma oltre alla disuguaglianza di censo ne è stata evidenziata anche una razziale: i meno preparati erano neri o ispanici non residenti in aree urbane, dove la vita è più costosa, ma la copertura internet è più diffusa.

Per inciso, occorre sottolineare che in agosto il presidente Usa Donald Trump ha emesso un’ordinanza esecutiva volta ad aumentare anche nelle aree extraurbane il servizio di telehealth per tutta la durata della pandemia, un servizio che occorrerà mantenere anche dopo l’emergenza.

Nel secondo studio sono stati valutati 639mila anziani. Ben il 41% di loro non disponeva di collegamento internet rapido a banda larga, un altro 41% non aveva uno smartphone e il 26% non aveva né l’uno né altro. Anche i pazienti di questo studio non appartenevano a classi sociali abbienti e la loro scolarità era bassa.

Alla luce dei risultati di questi studi cosa potrà cambiare nell’assistenza di questi pazienti ora che il Covid ha innescato una nuova era di cura digitale alla quale non sanno accedere?

Telehealth emergenziale

La telemedicina avvantaggia la capacità di relazionarsi con il medico e/o con il farmacista nonostante l’handicap della propria condizione, ma viene da chiedersi se questi pazienti saranno in grado di usufruirne.

I segni di chances insospettate ci sono. Il detto che recita “la fame aguzza l’ingegno” calza perfettamente con quanto avvenuto nelle Rsa d’Italia e di tutto il modo se si pensa, per esempio, a come sono riusciti gli anziani “reclusi” in queste strutture durante il lockdown ad apprendere rapidamente l’uso degli smartphone pur di relazionarsi con i propri cari ai quali la pandemia in corso impediva di far loro visita.

Il tele-isolamento

In Italia c’è voluto tempo per metterli in grado di usare questi strumenti di comunicazione e a volte glieli hanno dovuti procurare gli stessi familiari.

Invece, negli Usa sono state trovate soluzioni dagli stessi enti ospedalieri: quella escogitata, per esempio, presso il NewYork- Presbyterian/Weill Cornell medical center e il Presbyterian/Lower Manhattan hospital, è stata definita tele-isolamento.

La camera di degenza del paziente è stata trasformata in una vera e propria stazione telemedica dotata di tablet e videocamere ad alta definizione per la videocomunicazione con il personale medico e paramedico e con i familiari e il paziente aveva vicino al letto un telefono fisso facilmente accessibile e a disposizione, 24 ore al giorno, tutti i giorni, gratuitamente.

Secondo gli autori la formula del tele-isolamento si è dimostrata un modello da implementare per ridurre l’esposizione e migliorare la comunicazione anche con i familiari che non avranno più necessità di visitare i pazienti di persona riducendo così il rischio di diffusione della pandemia.

Il sistema andrà allargato alle Rsa, ai centri riabilitativi e a tutti gli ospedali di lungodegenza Usa, sia perché i pazienti ospitati da queste strutture sono più esposti a infezione da Covid sia perché è più probabile che si trovino, comunque, in una situazione di isolamento per le restrizioni imposte alle visite dei familiari. Il Sistema sanitario statunitense, sollecitano gli autori dello studio, dovrebbe prevedere l’installazione di queste infrastrutture telemediche in ogni ospedale di questo tipo riconoscendone l’importanza per ogni situazione di criticità e non solo per quelle emergenziali come una pandemia, un terremoto o un uragano.

Prevenzione italiana

Ma anche in Italia, già prima della crisi generata dal Covid, le iniziative per incrementare l’uso delle tecnologie da parte degli anziani non mancavano: basti pensare, per esempio, a quella studiata ben prima che arrivasse il Covid, da Senior Italia – FederAnziani e da un gestore telefonico, “Più vicino a chi ami” per rendere la tecnologia più semplice a questa fascia d’età, oppure al video tutorial studiato per consentire a questi soggetti di usufruire di un servizio di consegno a domicilio, o ancora a quella chiamata “Consegniamo un sorriso” che prevede visite di cortesia con eventuali aiuti e servizi essenziali come la domiciliazione dei farmaci: il 36% dei senior vive con meno di 1.000 euro al mese e quattro su dieci non hanno nessuno con cui parlare.

Questo è, infatti, uno dei motivi per cui spesso molti di loro utilizzano i farmacisti come psicologici e il banco della farmacia diventa un confessionale dove parlare delle proprie preoccupazioni di salute più recondite, raccontando anche quello che non si dice al medico.

I video-tutorial

Un’altra iniziativa di cui l’anziano italiano può usufruire con tutta comodità a casa propria è una speciale serie tv trasmessa sul canale You Tube.

Peccato che, se i risultati del recente studio di Jama internal medecine sono corretti, si tratta di un’iniziativa che parte viziata dal limite di essere un servizio fruibile soltanto con televisioni di ultima generazione che sono poco diffuse fra le classi meno abbienti.

Per quelli che se lo possono permettere si tratta, comunque, di una serie di video tutorial, del canale YouTube di un gestore telefonico diffusi sui canali social di Senior Italia FederAnziani, che illustra in modo semplice e chiaro i passaggi necessari per utilizzare App di messaggistica e social network, utile a gestire la posta elettronica o per avere accesso ai servizi digitali e fare ordinazioni a domicilio tramite i servizi di delivery, con l’obiettivo di fornire una guida puntuale e di immediata comprensione.

Se il farmacista ritiene che qualche suo paziente possa rientrare fra i fruitori adatti a questo tipo di servizio può tranquillamente consigliarlo. Tutte queste iniziative sono state sviluppate in Italia negli ultimi mesi, ma già prima era attivo “Pronto Alzheimer”, il servizio gestito da Federazione Alzheimer Italia, che permette ai familiari dei malati di non sentirsi soli, di usufruire di supporto psicologico e di informazioni in tempo reale sui servizi territoriali, farmacie disponibili comprese, inviando una semplice e-mail all’indirizzo info@alzheimer.it.

L’informatore sanitario

La pandemia non ha comunque fatto sconti a nessuno: infatti, ha bloccato anche agli informatori farmaceutici la possibilità di visite periodiche a medici e farmacisti per aggiornarli sui nuovi farmaci delle aziende farmaceutiche per cui lavorano.

La situazione di queste figure del panorama sanitario fa da contraltare a quella dei pazienti anziani che non sanno usare la telemedicina, perché, all’opposto, gli informatori si sono “salvati” proprio grazie alla loro gran dimestichezza con la comunicazione virtuale favorita, peraltro, dalle loro stesse aziende che li hanno forniti di cellulari e computer di ultima generazione, talvolta migliori di quelli degli stessi medici e farmacisti.

L’indagine Taking the pulse, condotta ogni anno in Usa, ha evidenziato che, per quanto riguarda i pazienti, durante la pandemia ben quattro medici su cinque conducevano visite virtuali, ritenendole una modalità di cura più comoda e sicura rispetto a quella tradizionale, e il 52% continuerà a farlo anche dopo l’emergenza, un dato che conferma il rischio di discriminazione assistenziale alla quale potranno essere esposti i pazienti che non sanno usare i mezzi di comunicazione virtuale.

Per quanto riguarda, invece, il rapporto con gli informatori farmaceutici, l’indagine, condotta su 4.855 medici Usa di cinque diverse specialità, ha indicato che da aprile a luglio la comunicazione virtuale con gli informatori è cresciuta di ben sette volte e, tuttora, resta la principale via di contatto con queste figure che prima della pandemia rappresentavano una presenza costante negli ospedali, negli studi medici e nelle farmacie e che ora sono praticamente scomparsi.

Dall’indagine risulta che prima dell’estate il 60% dei medici comunicava con loro solo in remoto (mail, telefono, skype eccetera), mentre, nei precedenti sei mesi, due su tre li incontravano di persona.

Non solo pro

Tuttavia, in questa dilagante crescita virtuale ci sono anche voci di dissenso: il 20% dei medici Usa non ha fatto ricorso alla telehealth negli ultimi tre mesi per il rischio di scadimento della qualità dell’assistenza (49%), per ragioni deontologiche (44%) e per rischi di sicurezza della privacy (29%).

Un altro motivo era la preoccupazione di non ottenere adeguati rimborsi per le prestazioni virtuali (21%) visto che il Ssn americano ancora non le riconosceva equivalenti alle visite tradizionali, un problema che va risolvendosi solo negli ultimi mesi.

Il 17 settembre 2020, la Task force per la policy della telemedicina ha fatto richiesta, agli enti governativi Usa, di riconoscere un valore della visita virtuale equivalente a quella tradizionale, quantomeno per alcune malattie, ripristinando l’Hipaa (Health insurance portability and accountability act) sospeso con la pandemia. Infine, alcuni specialisti (il 21%) sostengono di non ricorrere alla telemedicina perché non costituiva uno strumento fondamentale per la loro particolare specialità: soprattuto oftalmologi (79%) e otorinolaringoiatri (75%).