Il rischio di dipendenza dai farmaci oppiacei nel trattamento del dolore cronico è un tema di attualità dopo la pubblicazione dei dati allarmanti provenienti dagli Stati Uniti: la Food and Drug Administration ha calcolato che negli Usa più di 16mila decessi sono causati da overdose dovuta all’uso di queste sostanze, e che oggi questa è una delle cause principali di morte accidentale negli Stati Uniti. Le linee guida dei Centers for Disease Control and Presentino, infatti, sottolineano la necessità di raccogliere ulteriori evidenze sul rapporto costo-efficacia e sulla sicurezza dell’uso cronico.
La sesta edizione di Impact proactive ha visto esperti interdisciplinari del dolore, opinion leader, rappresentanti delle Istituzioni e delle Società Scientifiche, portavoce delle Associazioni di difesa dei diritti dei cittadini, ricercatori e medici di medicina generale confrontarsi su terapia del dolore, cure palliative e diritti dei cittadini con dolore.
«Noi riteniamo però che per quanto riguarda l’Italia questo sia un falso problema, e che la questione vada posta diversamente», dichiara Guido Fanelli, membro del Comitato Scientifico di Impact proactive. «I dati più recenti presentati nel corso di Impact proactive ci dicono anzitutto che L’Italia è l’ultimo tra i cinque paesi top europei (Inghilterra, Spagna, Francia e Germania) per consumo di farmaci per il trattamento del dolore benigno, e che è l’ultimo Paese in Europa per valore complessivo di oppioidi, mentre è il primo Paese invece per utilizzo di Fans, i farmaci antinfiammatori non steroidei, che come sappiamo presentano molti e gravi effetti collaterali. La questione va inquadrata nella giusta prospettiva: il 17% della popolazione mondiale risiede negli Stati Uniti e in Canada, dove avviene il 92% del consumo globale di oppioidi e derivati della morfina; il consumo medio pro-capite di questi farmaci è pari a 800 mg di equivalenti in morfina nella popolazione statunitense, e di solo 2 mg in Italia. Il problema quindi è l’opposto: l’utilizzo dei farmaci oppiacei deve crescere in maniera appropriata e regolamentata; per motivi culturali, e per via di una legislazione diversa che permette di acquistare certi medicinali solo in farmacia, non corriamo gli stessi rischi degli Stati Uniti».
Considerazioni riprese anche da Diego Fornasari, professore di Farmacologia dell’Università degli Studi di Milano, che dice: «Uno studio recente pubblicato sulla European Review for Medical and Pharmacological Sciences rivela che il rischio di dipendenza è basso anche nei pazienti con episodi di dipendenza, del 3,3%, e che scende addirittura allo 0,2% nei pazienti che non hanno un passato di dipendenze».
Nel corso di Impact proactive è stata presentata ufficialmente la notizia di una ricerca italiana su vasta scala per valutare un eventuale rischio di addiction, e che coinvolgerà la rete sul territorio dei centri che aderiscono al progetto Pinhub (Pain Interregional Network Hub), il primo “network del dolore” italiano che unisce 21 Centri Hub da tutta Italia per portare avanti campagne di ricerca e sensibilizzazione sulla tematica del dolore. Claudio Leonardi, presidente nazionale di Siapad (Società italiana Patologie da Dipendenza), ha spiegato meglio di cosa si tratta: «La condizione di dipendenza da oppioidi in corso di terapia antalgica non implica che siano i farmaci oppiacei a indurre “dipendenza”. Recenti studi di carattere neurobiologico dimostrano che sono specifici fattori organici, psichici e sociali, posti in rapporto con gli effetti “additivi” propri degli oppioidi, a rendere i pazienti in trattamento analgesico maggiormente vulnerabili agli effetti additivi propriamente detti di questi farmaci. A tutt’oggi non esiste ancora una scala validata per gestire tale problematica, ed è per questo che abbiamo lanciato uno studio attraverso un questionario, l’Addiction Risk Questionnaire, per prevedere un eventuale abuso o misuso di farmaci oppioidi prescritti per il controllo del dolore non oncologico secondo le indicazioni autorizzate e per individuare i soggetti a rischio».