Tutte le donne sono a rischio di tumore ovarico. Fra costoro, nel 2024, 324 mila nel mondo hanno ricevuto una diagnosi di tumore ovarico, 5.423 solo in Italia di cui nel 50% dei casi di origine genetico-ereditaria dovuta a un Difetto di Ricombinazione Omologa che include anche 25% di mutazioni BRCA 1 e 2.
Il rischio di sviluppare un tumore dell’ovaio, nella popolazione generale, è dell’1,8%. Stime e dati importanti che hanno spinto ACTO Italia (Alleanza contro il tumore Ovarico) a redigere anche un Manifesto 2.0 di tutela per la migliore gestione di questa neoplasia, il tumore femminile di cui si parla meno, nonostante sia il più pericoloso e ad alta letalità, con una sopravvivenza a 5 anni di circa il 43% in caso di diagnosi tardiva. La più frequente, ciò a causa di manifestazioni subdole, mancanza di strumenti efficaci di screening o di diagnosi precoce come esistono invece per il tumore dell’utero e del seno. Fare sensibilizzazione, ovvero promuovere a conoscere e riconoscere i sintomi della malattia può salvare la vita, come viene ribadito in occasione della Giornata Mondiale sul tumore ovarico, 8 maggio. ACTO è impegnata da 15 anni, dalla sua fondazione, a contrastare questa neoplasia con iniziative e delegazioni sull’intero territorio nazionale.
Le 7 azioni necessarie
Il Manifesto 2.0, sulle necessità e sui diritti delle pazienti con tumore ovarico, racchiude 7 pillar per cambiare i paradigmi di approccio alla malattia e segnare una nuova rotta nella sua gestione. Nonostante siano stati compiuti alcuni passi avanti in termine di innovazione diagnostico-terapeutica restano ancora molti i bisogni insoddisfatti.
1. Più informazione
Negli ultimi 10 anni la conoscenza del tumore ovarico è cresciuta in maniera sensibile: circa il 70% di donne oggi ne (ri)conosce i sintomi ed è consapevole della sua gravità.
Tuttavia, solo il 30% sceglie di curarsi in centri specializzati, che invece fanno la differenza in termine di sopravvivenza e cura. “Numerosi studi di popolazione – ha dichiarato Nicoletta Colombo, direttore del Programma di Ginecologia Oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano – hanno dimostrato che l’expertise chirurgica e un approccio multidisciplinare al trattamento del tumore ovarico in centri ad alto volume, portano a risultati in termini di sopravvivenza libera da malattia e sopravvivenza globale significativamente migliori rispetto a quelli di pazienti trattate in centri a basso volume. L’organizzazione della presa in carico delle pazienti con tumore, nello specifico ovarico, va ripensata in questi termini, andando a identificare i centri ad alta specialità che rispondono ai criteri indicati dalla Società Europea di Ginecologia Oncologica. Dobbiamo avere il coraggio di cambiare lo status quo”.
2. Più cure personalizzate
L’oncologia di precisione è una realtà anche per il tumore ovarico. Per renderla accessibili a tutte le pazienti è necessario garantire una diagnosi, anch’essa di precisone, attraverso test diagnostici e la profilazione genomica estesa. Fondamentale in questo contesto è il ruolo del Molecular Tumour Board, un team di figure multidisciplinari (patologo, genetista, oncologo e altre figure professionali), in grado di indirizzare la paziente verso una terapia personalizzata, più rispondente alla natura molecolare della malattia.
3. Più cure migliori
Per rispettare il diritto-obiettivo di trattamenti appropriati e adeguati è necessario che in tutte le regioni sia presente e attivato un PDTA (Percorso Diagnostico Terapeutico) specifico per il tumore ovarico, identificando centri di riferimento sul territorio in cui possano essere avviati e che possano gestire al meglio le pazienti, dall’accesso, alla persa in carico, al percorso di cura personalizzato, sia nella fase di sorveglianza che di cronicità della malattia.
4. Più prevenzione e diagnosi precoce
L’assenza di sintomi specifici e la mancanza di strumenti di screening costituiscono la prima criticità e limite alla diagnosi precoce. È necessario impegnare più risorse nello sviluppo di nuove tecnologie di screening favorendo anche l’accesso dei famigliari sani di primo grado di pazienti con mutazione genetica, quindi a una esposizione potenziale più elevata di sviluppare la malattia, a test genetici gratuiti e in caso di positività a percorsi di sorveglianza e di riduzione del rischio.
Fondamentale è anche la ricerca scientifica: “Partendo dall’ipotesi che nelle fasi iniziali del tumore ovarico il DNA tumorale possa arrivare al canale endocervicale e quindi essere rilevabile nel PAP test – spiega Maurizio D’Incalci, professore Humanitas University – abbiamo condotto uno studio finanziato principalmente dalla Fondazione Alessandra Bono e da AIRC, in cui sono stati analizzati 250 PAP test eseguiti fino a 10 anni prima della diagnosi. Grazie al sequenziamento del DNA, si è scoperta la presenza di alterazioni tumorali già nove anni prima della diagnosi, solo nelle pazienti malate e non nelle donne sane. Il nostro intento, in considerazione di questi dati preliminari, è di estendere lo studio a migliaia di casi in tutta Italia, coinvolgendo 50 strutture utilizzando il machine learning, con l’obiettivo di sviluppare per il prossimo futuro un test di diagnosi precoce per il tumore ovarico”.
5. Più qualità di vita
Non basta curare la malattia, è necessario occuparsi anche della qualità della vita della persona con tumore ovarico, affiancando alle terapie tradizionali, terapie complementari, come consulenza nutrizionale, movimento e attività fisica, supporto piscologico, consulenza sessuologica, agopuntura o oncoestetica.
6. Più voce alle Associazioni Pazienti
Il coinvolgimento del paziente nelle decisioni di politica sanitaria è indispensabile e imprescindibile, sia per rilevare bisogni ancora insoddisfatti, sia per fare (in)formazione, sia per favorire la partecipazione attiva del paziente nei processi e percorsi decisionali. Fondamentale il ruolo del paziente anche nella ricerca clinica, per lo sviluppo di studi dedicati.
7. Più tutele
È noto che la malattia oncologica spesso “penalizza” il paziente nel re-ingresso nel tessuto sociale. È necessario che la persona sia a conoscenza, fin dalla diagnosi, della tutela e dei diritti previsti dalla legge. Informazioni che vanno estese anche ai datori di lavoro che devono essere a conoscenza degli aspetti da garantire al proprio dipendente, quali ad esempio: comporto, orario part-time e telelavoro.