Epatite D ed E, la prevenzione è fondamentale

Non capita spesso di sentire parlare dell’epatite D ed E, due forme meno note ma non per questo meno gravi della patologia virale che colpisce il fegato. Se le forme A, B e C sono ben conosciute anche dalle persone non addette ai lavori, può valere la pena di riepilogare le caratteristiche principali delle forme D ed E.

fegato

 

I dati del Sistema epidemiologico integrato dell’epatite virale acuta (Seieva) indicano che in Italia negli ultimi 30 anni le epatiti A, B, C e D sono in continuo calo, mentre si sta invece configurando come malattia emergente l’epatite E, per la quale si registra un aumento del numero di casi autoctoni (non legati a viaggi in aree endemiche) (dati aggiornati al 28 lugio 2016). A livello mondiale, i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) stimano in 20 milioni le persone infette da epatite D, con circa 3,3 milioni di casi asintomatici e oltre 56 mila morti. Sarebbero invece circa 15 milioni le persone nel mondo affette da coinfezione cronica da epatite B e D, sempre secondo i dati Oms.

Epatite E: trasmissione alimentare

L’agente eziologico che causa l’epatite E, Hepatitis E virus (Hev), è poco diffuso nei paesi industrializzati. Nel periodo 2007-2015 sono stati notificati al Seieva 195 casi di epatite E acuta, soprattutto in soggetti d’età 35-54 anni e maggiore di 55 anni di sesso maschile (82%). Il 40% dei casi riguarda soggetti stranieri (soprattutto provenienti da Paesi altamente endemici quali Bangladesh, India e Pakistan).

L’infezione si trasmette con modalità simili a quelle dell’epatite A, mediante contatto con acqua o alimenti contaminati da feci infette; l’igiene alimentare è quindi un pre-requisito essenziale per prevenire la possibilità di contagio. Particolare attenzione va prestata ai frutti di mare crudi o poco cotti e alla carne di maiale, specie se cruda. Secondo quanto riportato dall’Epicentro dell’Istituto Superiore di Sanità, infatti, la maggior parte dei casi autoctoni in Italia è attribuibile genotipo 3 del virus Hev, che ha un’alta prevalenza anche in alcuni animali, tra cui soprattutto i maiali. Nel periodo 2012-2015 è risultato che il 72,5% dei casi notificati riportava consumo di carne di maiale. La malattia, quindi, potrebbe assumere il carattere di possibile zoonosi, trasmessa attraverso un’esposizione occupazionale dei lavoratori degli allevamenti di suini e altri animali infetti. Durante i viaggi nei paesi a rischio, inoltre, è opportuno lavarsi le mani spesso, consumare solo alimenti cotti o sbucciati ed evitare il contatto con l’acqua del rubinetto anche solo per lavarsi i denti. Se proprio non è possibile evitare l’uso di acqua non in bottiglia, bisogna bollirla almeno 10 minuti prima di consumarla.

La malattia è spesso asintomatica e generalmente autolimitante, anche se sono riportati rari casi di cronicizzazione a carico soprattutto di soggetti immunocompromessi (2 casi fulminanti e 2 decessi riportati al Seieva). Particolare attenzione va posta dalle donne in gravidanza, che possono andare soggette a decorso clinico particolarmente severo in particolar modo durante il terzo trimestre, con una letalità che può raggiungere il 20%. I sintomi compaiono dopo 2-10 settimane d’incubazione (generalmente dopo 5-6 settimane, dati Oms) e sono molto simili a quelli dell’epatite A: oltre e sintomi generici come febbre, stanchezza, perdita d’appetito, il paziente presenta dolori addominali, nausea e vomito e comparsa di ittero. Le urine sono scure. Sebbene poco diffusa e non cronicizzante, l’epatite E può danneggiare gravemente la funzionalità epatica. Non sono disponibili vaccini commerciali per la forma E dell’epatite:, due prodotti sono in corso di sperimentazione clinica: è, quindi, molto importante sottoporsi immediatamente agli accertamenti diagnostici che permettono d’individuare la presenza degli anticorpi specifici contro il virus Hev nel sangue, soprattutto se si è viaggiato nelle zone a rischio e si sospetta di poter aver contratto la malattia. Non esiste ad oggi nessun trattamento risolutivo dell’epatite E, che si presenta di solito in forma non grave e non richiede ospedalizzazione; secondo quanto riportato da Oms, i pazienti immunodepressi con epatite E cronica possono beneficiare di un trattamento con ribavirina e, in alcune situazioni specifiche, con interferone.

Epatite D: satellite potenzialmente fatale

L’hepatitis D virus (Hdv) è uno dei cosiddetti virus satelliti o subvirioni, che necessitano della presenza di un altro virus per potersi replicare: la malattia si presenta, infatti, solo in soggetti già infetti con la forma B del virus (Hbv). L’infezione è diffusa in tutto il pianeta e si può trasmettere in simultanea per le due forme B e D (coinfezione), ovvero il virus Hdv può colpire in un tempo successivo un soggetto già portatore di Hbv (sovrainfezione). Nel primo caso, la manifestazione clinica è assai simile a quella dell’epatite B, con stanchezza, febbre e mancanza di appetito, nausea e vomito, dolori articolari e addominali, urine dal colore scuro e comparsa di ittero. In caso di sovrainfezione, invece, l’epatite acuta che si sviluppa può portare anche alla morte del paziente. L’epatite D può cronicizzare e rendere più grave il decorso della forma B, riporta EpiCentro, con una più rapida progressione verso la cirrosi e a un più alto rischio d’insufficienza epatica e d’insorgenza di epatocarcinoma. Il vaccino contro la forma B protegge anche contro l’epatite D, motivo alla base della diminuzione dell’incidenza del numero di casi della malattia in Italia negli ultimi 30 anni. Secondo i dati Segeiva, nel 2012 e nel 2014 l’incidenza è stata 0,1 casi per 1.000.000 abitanti, nel 2013 non sono stati segnalati casi. Nel 2015 è stato notificato un solo caso di epatite acuta delta, in una donna di 50 anni che non ha riportato nessun dei fattori di rischio noti. Dal 2009, inoltre, non sono stati più segnalati casi in tossicodipendenti. Il genotipo I del virus Hdv è il più diffuso a livello mondiale, il genotipo II è stato rilevato in Giappone e a Taiwan, mentre il genotipo III è presente solo in Amazzonia.

I virus Hbv e Hdv si trasmettono con le stesse modalità, mediante contatto con sangue o fluidi corporei infetti e anche per via sessuale, ed hanno un tempo d’incubazione di 2-8 settimane in caso di sovrainfezione, di circa 90 giorni nel caso della coinfezione. Tra le principali misure di prevenzione vi sono l’uso di profilattici durante i rapporti sessuali, la precauzione di non condividere aghi o siringhe per l’assunzione di stupefacenti o oggetti personali come spazzolini da denti o rasoi. La malattia si trasmette da madre a figlio durante la gravidanza e anche i portatori sani possono trasmettere il contagio.

La diagnosi identifica gli anticorpi per l’Hdv presenti nel sangue ed è confermata dalla rilevazione dell’RNA del virus nel siero; i pazienti presentano tratti caratteristici HBsAg+, IgM anti-Hdv+ e IgM anti-Hav negativi. Non esiste un trattamento specifico per l’epatite D cronica. L’interferone alfa è l’unico farmaco attivo per questa forma di epatite; l’Organizzazione mondiale della sanità sottolinea la necessità di svilupapre nuove strategie e farmaci innovativi per questa malattia, e indica come promettenti in tal senso gli inibitori della prenilazione e gli inibitori dell’entrata dell’HBv, attualmente in fase precoce di sviluppo. Nei casi più gravi di epatite D può essere necessario il trapianto di fegato.

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