Il Gruppo di lavoro istituito ad hoc presso il Ministero della Salute ha fornito le nuove indicazioni per una corretta gestione dei pazienti con Epatite C. Il testo ha focalizzato l’attenzione sulla diagnosi, la presa in carico e il trattamento delle infezioni, indicando le linee di indirizzo nazionali basate sulle evidenze della letteratura

Il Gruppo di lavoro istituito ad hoc presso il Ministero della Salute ha fornito le nuove indicazioni per una corretta gestione dei pazienti con Epatite C. Ora il testo dovrà essere approvato in Conferenza Unificata. Più in particolare, il testo ha focalizzato l’attenzione sulla diagnosi, la presa in carico e il trattamento delle infezioni da virus dell’Epatite C, indicando le linee di indirizzo nazionali basate sulle evidenze della letteratura e, al contempo, la realizzazione di reti di patologia e adeguati PDTA per intercettare e curare anche quei 500mila italiani, colpiti dal virus dell’epatite di tipo C, che si ritiene non siano stati ancora trattati nonostante l’arrivo dei nuovi farmaci.

L’infezione da virus dell’epatite C (HCV) rappresenta in Italia e nel mondo una delle cause principali di morbosità e mortalità correlata a malattie del fegato. Nel nostro Paese non sono mai stati realizzati studi di prevalenza tali da poter fornire valide statistiche nazionali. Dagli studi effettuati è tuttavia possibile stimare una prevalenza di infezione attiva che oscilla tra lo 0,9 e il 2,3% della popolazione. Gli studi nazionali evidenziano inoltre due aspetti: un gradiente crescente Nord-Sud e una prevalenza maggiore negli over 65.

Nel 2020 l’Osservatorio Polaris aveva stimato una prevalenza dell’1%, corrispondente a circa 577mila soggetti infetti (con un range di oscillazione tra 252mila e 843mila). Dati, questi, in linea con quanto riportato da un recente documento prodotto da EpaC, associazione onlus, che stima la presenza di circa 443mila (range 354mila-532mila) soggetti con una storia di malattia da infezione di Epatite C (guariti e non guariti). Oltre che con i dati di una stima nazionale che nel 2020 riporta circa 410.775 soggetti (range 388.627 – 425.800) con infezione cronica da HCV ancora non trattati in Italia (il cosiddetto “sommerso”), di cui circa 128.966 (range 44.471 – 198.119) con una fibrosi epatica molto avanzata.

Le nuove linee di indirizzo

Alla luce di questo, il gruppo di lavoro istituito presso il Ministero della Salute, ha elaborato delle nuove linee di indirizzo che intendono focalizzare l’attenzione sulla diagnosi, sulla presa in carico e sul trattamento delle infezioni da Epatite C. Le linee di indirizzo, basate sulle evidenze presenti in letteratura, mirano a indirizzare alla realizzazione di PDTA regionali e locali per l’infezione da Epatite C.

Le linee di indirizzo enfatizzano inoltre circa la necessità di garantire un uso corretto ed omogeneo sul territorio nazionale degli strumenti terapeutici disponibili per il trattamento dell’infezione da HCV, anche grazie alla costruzione di meccanismi di rete in grado di garantire omogeneità di percorsi diagnostico terapeutico assistenziali (PDTA) su tutto il territorio.

Difatti, l’introduzione in Italia, verso la fine del 2014, degli antivirali ad azione diretta – DAAs – ha aperto una nuova era nella lotta all’epatite C, in grado di cambiare l’epidemiologia e l’impatto clinico sul Sistema Sanitario Nazionale di questa malattia, bloccando la progressione della fibrosi epatica in soggetti con epatite cronica e riducendo il rischio di complicanze e mortalità nei pazienti con cirrosi epatica.

L’importanza della rete

Alla luce di questa rivoluzione, appare fondamentale un uso corretto e omogeneo di questi strumenti terapeutici sul territorio nazionale. Le reti di patologia sono state istituite al fine di consentire ai professionisti della sanità sinergie e condivisione dei protocolli di procedura e quindi dei PDTA sulla base delle best practices.

Le stesse costituiscono il modello di integrazione dell’offerta idoneo per coniugare le esigenze di specializzazione delle strutture sanitarie e socio-sanitarie, con la diffusione sul territorio dei centri di eccellenza e di tecnologie a elevato standard, con la sostenibilità economica e i fabbisogni della collettività e dei professionisti che operano in ambito sanitario e socio sanitario.

Il migliore schema di rete

Al fine di raggiungere un’omogeneità, a livello nazionale, nella gestione e nel trattamento dell’infezione da Epatite C, tramite l’applicazione di PDTA evidence based, è auspicabile la costituzione di un modello di Rete per il trattamento dei pazienti con HCV, secondo il seguente schema:

  • Centro di Coordinamento Regionale;
  • Centri di riferimento regionali ospedalieri per la gestione del trattamento dell’infezione cronica da HCV (centri Hub);
  • Centri di secondo livello sul territorio (centri Spoke);
  • Laboratori di riferimento regionale;
  • Forme di aggregazione previste dagli accordi collettivi con la medicina di base.

L’aspetto fondamentale dell’organizzazione delle reti per l’applicazione dei PDTA per la gestione e il trattamento delle infezioni da HCV, da adottare da parte delle Regioni, è rappresentato dall’attivazione e dall’implementazione di un collegamento operativo tra le strutture ospedaliere (centri Hub) con i centri di secondo livello sul territorio, nonché della collaborazione con i SerD e i centri di medicina penitenziaria.

Una struttura così articolata permetterebbe di intercettare e curare gli oltre 500mila italiani affetti da virus dell’Epatite C che, nonostante l’arrivo dei nuovi farmaci, non sono ancora stati trattati.

L’importanza dello screening

Oltre a riporre l’attenzione sull’importanza di una rete strutturata e di un sistema hub e spoke dei centri, coadiuvato da una piattaforma web based, perché il paziente possa essere inquadrato e trattato nel minor tempo possibile, includendo al suo interno oltre agli MMG, anche i servizi pubblici per le dipendenze e le carceri, il documento enfatizza l’importanza degli screening, basati sulla rilevazione di HCVAb nel siero o nel plasma con test immunoenzimatici.

I test rapidi, quali i test su sangue capillare o i test salivari, possono essere utilizzati in alternativa ai classici test immunoenzimatici per facilitare lo screening e l’accesso alle cure. “Le strategie di screening da adottare – sottolinea il documento – dovrebbero essere definite tenendo conto della situazione epidemiologica locale e del quadro di piani d’azione locali, regionali o nazionali. In caso di riscontro di positività degli HCVAb è necessario completare l’inquadramento diagnostico mediante la ricerca di HCV RNA al fine di identificare i pazienti con viremia e quindi stabilire se l’infezione è in atto o risolta”.