Epatite C: al via una campagna di sensibilizzazione sul virus

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Parte da maggio una grande campagna di sensibilizzazione e conoscenza per spingere la popolazione colpita, e talora ignara della malattia, all’eliminazione del virus dell’Epatite C.

Per l’Epatite C (HCV) si è aperta l’opportunità di eliminare l’infezione una volta per tutte nella stragrande maggioranza delle persone trattate. Per questa malattia l’obiettivo non è più trovare nuove cure, ma fare emergere il sommerso, conoscerne l’entità, individuare il modo di raggiungere le persone inconsapevoli di essere infettate e avviarle al trattamento. Ecco perché parte da maggio 2019, con spot tv e azioni media concertate, una grande campagna di sensibilizzazione e conoscenza per spingere la popolazione colpita e talora ignara della malattia, all’eliminazione del virus, con una terapia di poche settimane per bocca e senza alcun rischio.

Le comunità di persone particolarmente e rischio infezione di malattie come Epatite C, Hiv e non solo, sono definite Key populations. Il fenomeno è di proporzioni globali ed  è sempre più difficile da combattere anche a causa delle particolari  condizioni in cui questi soggetti si trovano: tossicodipendenza, stato di migrante, detenzione e, più in generale, una situazione di svantaggio sociale ed economico.

Epatite C e tossicodipendenza

“Oggi abbiamo a disposizione farmaci per combattere l’Epatite C che sono così efficaci da assicurare nella quali totalità dei casi l’eradicazione dell’infezione. In questo scenario bisogna allora porsi la domanda: quali siano le categorie di persone nelle quali l’infezione si trova a circolare maggiormente e che quindi fanno da serbatoio dell’infezione”, spiega il Prof. Massimo Andreoni Direttore Scientifico della Simit, Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, con particolare riferimento ai soggetti tossicodipendenti per via endovenosa. “Oggi, infatti, circa l’80% delle nuove infezioni avviene attraverso lo scambio di siringa o di oggetti contaminati tra soggetti tossicodipendenti. In quest’ottica è quindi chiaro che un progetto di eliminazione dell’infezione all’interno di un determinato contesto sociale debba prevedere il trattamento di questa categoria di persone”. A incoraggiare una sempre più necessarie e urgente strategia di terapia in questa direzione, c’è il dato dimostrato che le terapie finora somministrate in persone tossicodipendenti attivi sia perfettamente efficace al pari di tutti gli altri pazienti: “La tossicodipendenza quindi non è un fattore che modifica l’efficacia del trattamento. Una volta stabilita l’urgenza di trattare queste persone, dobbiamo attuare strategie finalizzate per far emergere il sommerso in queste popolazioni, ossia avviare campagne di screening per individuare con sempre più capillarità i pazienti da trattare. Basti considerare che in Italia circa 50% dei tossicodipendenti per via endovenosa è affatto dal virus dell’Epatite C: molti di questi soggetti non sanno nemmeno di essere malati”.

Epatite C nelle carceri

“Le carceri si confermano un vero e proprio concentratore di patologie”,  spiega il Prof. Sergio Babudieri, Direttore Scientifico della SIMSP – Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria.  Ogni anno all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani transitano tra i 100mila e i 105mila detenuti. Circa il 70% di essi soffre di una malattia cronica ma di questi solo poco meno della metà ne è consapevole.  “Tra le malattie infettive, per l’Epatite C almeno un terzo di queste persone detenute sono di fatto etichettabili con il rischio di trasmissione endovenosa, considerando ovviamente come causa principale il fenomeno della tossicodipendenza. Ciò vuol dire che ci troviamo davanti a una massa critica annuale di circa 35mila persone con alle spalle una storia legata a reati connessi a sostanze stupefacenti e tra loro, circa il 70% è venuto in contatto (che non vuol dire ne sia necessariamente affetto) con il virus dell’Epatite C”. La sfida, secondo Babudieri, è  “individuare uno per uno questi soggetti potenzialmente affetti e, nel caso, confermarne lo stato di malattia e di conseguenza trattarne la patologia con le terapie indicate, evitando soprattutto la possibilità di contagio con altre persone”. L’obiettivo, quindi, è quello della micro eradicazione dell’HCV, per ridurre in modo sensibile ed efficace il ‘serbatoio’ della malattia e quindi, di conseguenza, l’incidenza della malattia stessa.

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Sergio Babudieri, Direttore Scientifico della SIMSP – Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria, e Massimo Andreoni Direttore Scientifico della Simit – Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali