In caso di difficoltà economica della farmacia, convertire una condotta di aggressione patrimoniale in collaborazione consente di conseguire il miglior risultato possibile sia per il creditore sia per il debitore
Il primo motivo responsabile della crisi della farmacia è gestionale e finanziario, legato prevalentemente a un uso improprio della cassa e a una scorretta interferenza dell’indebitamento esterno con la redditività della farmacia. La maggior parte dei farmacisti ha utilizzato la leva del finanziamento per acquistare la farmacia e il suo avviamento ma poi ha chiesto troppo alla sua redditività per ripagare la restituzione del debito.
Prima del 2008 le farmacie si compravano a 2/2,5 volte il fatturato, mentre ora il loro valore oscilla in multipli pari a 0,8 e 1,2, con la conseguenza che chi ha comprato senza operare accantonamenti funzionali all’estinzione del debito, si è successivamente trovato in difficoltà nel rientro del debito.
L’errore riscontrato più frequentemente è, nel tentativo di rimandare in là il problema, il ricorso ad altre forme di finanziamento, per sopperire alle scadenze di rimborso del primo, non più sostenibili; si inizia con l’offrire in garanzia la cessione della DCR, per passare poi alla concessione di ipoteche volontarie e finire con la richiesta di fideiussione ai familiari, scelte che comportano l’allargamento del problema con contaminazione di altri patrimoni.
Si affacciano frequentemente finte opportunità legate all’aumento del credito da parte di fornitori che accettano di anticipare la vendita di prodotti allungando i termini di pagamento ma favorendo in realtà l’allargamento del debito, che si trasferisce dal primo finanziatore, alle banche e ai fornitori.
In queste condizioni la prima domanda di fallimento da parte di un creditore rivela il default del farmacista, il quale, indipendentemente dall’essere socio di una Snc o titolare di una ditta individuale, rischia il fallimento in prima persona, con la conseguente applicazione dell’art 113 TULS, che lega la decadenza dell’autorizzazione all’esercizio di una farmacia alla dichiarazione di fallimento.
Il concordato preventivo e l’accordo di ristrutturazione
L’alternativa allo scenario descritto è il concordato preventivo o, nel caso dell’imprenditore più accorto che sa cogliere con anticipo i sintomi della crisi, l’accordo di ristrutturazione. Entrambe le procedure prevedono, con modalità e impatti differenti sull’autonomia economica di chi li propone, l’offerta di un piano ai creditori, che sia per loro più attraente rispetto al fallimento, sia per la prospettiva di recupero del credito sia per la possibilità di mantenere un rapporto commerciale con l’indebitato. L’effetto principale per il farmacista è la sottrazione dal disorientamento provocato dall’indebitamento, responsabile della moltiplicazione delle iniziative giudiziali sul suo patrimonio e della strozzatura dell’attività per la carenza di risorse da destinare a nuovi ordinativi di merce.
Il farmacista si ritrova normalmente con la DCR bloccata dai creditori e l’impossibilità di farvi affidamento per il rifornimento di farmaci, con ulteriori perdite di fatturato, quasi sempre con l’impossibilità di far fronte al debito di energia con il rischio di interruzione della somministrazione, che garantisce la conservazione dei farmaci e sotto lo scacco dell’impresa di leasing, che pretende il ritiro dei propri beni funzionali all’esercizio dell’attività.
L’avvio della procedura concorsuale comporta l’interruzione di quelle esecutive in corso offrendo l’opportunità di destinare quanto pignorato alla ripresa dell’attività e al soddisfacimento dei creditori secondo un ordine di par condicio, garantendo la prosecuzione dei rapporti indispensabili alla continuità aziendale, con l’assicurazione di un pagamento preferenziale rispetto a quello di ogni altro creditore, definito di ‘prededuzione’.
In questa nuova condizione è possibile riprendere le redini della conduzione dell’attività e programmare con ordine la restituzione del debito, invocando ai creditori la partecipazione collettiva all’insufficienza patrimoniale per ristabilire la redditività della farmacia, che costituisce lo strumento su cui contare per programmare il rientro dilazionato del debito: questa condizione sarebbe ovviamente impedita dal fallimento, che porta solo alla liquidazione dell’attività con destinazione del ricavato ai creditori, i quali debbono rassegnarsi all’accettazione della perdita definita dal ricavo della liquidazione al netto dei costi del fallimento.
Questo fattore è ciò che permette la straordinaria convergenza degli interessi dei creditori con quelli del debitore in quanto risulta a tutti chiaro come la conservazione dell’attività aziendale e la conversione della condotta di aggressione patrimoniale verso la collaborazione, accompagnata da garanzie fondate su un progetto realizzabile, permette di conseguire il miglior risultato possibile per entrambi, favorendo la ripresa economica di quel debitore la cui morte economica non permetterebbe un miglior risultato finanziario. Offrendo serietà della proposta e fattibilità del piano che la sostiene, la raccolta dei consensi del ceto creditorio, anche da parte dei creditori un tempo più accaniti nelle procedure esecutive individuali, diventa una prospettiva realizzabile che permette al farmacista, non senza i dovuti sacrifici personali, di dare ordine al controllo del debito con un programma che ne preveda il graduale rientro e soprattutto di conservare la titolarità della farmacia che costituisce la propria fonte di reddito e la garanzia del ripianamento del debito.