«L’ipertensione arteriosa polmonare è una tipologia di ipertensione polmonare che rappresenta una condizione emodinamica comune a numerose e differenti patologie che hanno, però, un meccanismo fisiopatologico diverso e un differente approccio terapeutico».

Il dottor Gavino Casu, direttore UOC di Cardiologia Clinica e Interventistica, Azienda Ospedaliero Universitaria di Sassari presenta una patologia abbastanza rara, prevalentemente femminile: «L’incidenza è circa 1,5-2 casi all’anno per milioni di abitanti, quindi assolutamente modesta e in questo momento, in Italia, ci sono circa 3500 pazienti in Italia affetti da ipertensione arteriosa polmonare.

Gavino Casu, direttore UOC di Cardiologia Clinica e Interventistica, Azienda Ospedaliero Universitaria di Sassari

Nell’ambito delle forme di ipertensione polmonare questa forma specifica arteriosa polmonare è la malattia che coinvolge le piccole arterie del circolo polmonare con mezzo millimetro di diametro o inferiori. Queste arterie vanno incontro a un rimodellamento che le porta, attraverso un fenomeno di ipertrofia ed iperplasia delle tre tuniche, a diventare estremamente rigide e ad ostruirsi. Con la compromissione, da un lato, della circolazione destra (la circolazione del piccolo circolo del circolo polmonare) quindi quella che dal ventricolo destro ritorna all’atrio di sinistra, consentendo gli scambi gassosi.

Il processo patologico compromette il circolo sia nel percorso, nell’emodinamica, sia negli scambi respiratori. Questi pazienti, infatti, avranno, da un lato, una difficoltà negli scambi respiratori con un affanno, una dispnea che progressivamente è crescente, angosciante, anche nell’impossibilità di respirare, di compiere degli sforzi. L’ostruzione di questi vasi mette sotto sforzo il ventricolo destro che va a lavorare contro la resistenza progressivamente crescente. Il ventricolo destro, essendo già per sua natura debole e sottile nella sua parete perché è abituato a lavorare con bassi valori pressori, progressivamente si dilata sino a diventare insufficiente e a scompensarsi provocando, quindi, un quadro di scompenso drammatico che porta a morte i pazienti.

Si tratta di una malattia estremamente progressiva e che porta a morte anche nel giro di poco tempo se non adeguatamente trattata. Peraltro, noi non abbiamo dei trattamenti che ci consentono di guarire questi pazienti, ma solo di prolungare la loro sopravvivenza e di cercare di migliorare la qualità della loro vita. Fino ad oggi abbiamo utilizzato 10-11 farmaci, oppure si passava al trapianto di polmone che portava, comunque, a una sopravvivenza media di sei anni, perché non c’era alternativa.

Poi sono stati via via introdotti nuovi farmaci. Per questo, la necessità fondamentale è quella di intercettare, quanto prima, i primi segni della patologia, così da mettere sul campo una terapia estremamente aggressiva che ne rallenti l’evoluzione e che consenta, nei casi migliori, di avere un rimodellamento inverso del ventricolo destro che è estremamente dilatato, così da tornare indietro e riprendere una dimensione e una funzione più vicine a quelle normali».