Uno studio clinico randomizzato e controllato ha fatto per la prima volta luce sugli effetti per i nuovi nati dell’integrazione con vitamina D della dieta materna, escludendo un’azione significativa a livello di densità ossea e supportando invece degli effetti benefici per bambini nati nei mesi invernali, che possono così contrastare meglio la diminuzione dei livelli di vitamina D legata al minore irraggiamento dei raggi solari.
Lo studio MAVIDOS (Maternal Vitamin D Osteoporosis Study), recentemente pubblicato su Lancet Diabetes & Endocrinology, ha coinvolto 1134 donne inglesi tra la 14-esima e la 17-esima settimana di gravidanza con livelli di vitamina D normali o al di sotto della norma. Metà del campione ha assunto una dose giornaliera di vitamina D pari a 25 µg (1000 UI), paragonata all’assunzione di un placebo. La ricerca non ha mostrato differenze nella densità ossea dei nuovi nati tra i due gruppi di trattamento in termini generali. La densità ossea è, invece, risultata maggiore per i bambini nati in inverno e le cui madri hanno assunto l’integratore. Anche il livello di vitamina D di queste madri – tra la 14-esima e la 34-esima settimana di gestazione – è risultato in aumento, rispetto al calo osservato nel gruppo placebo. I ricercatori inglesi hanno quindi concluso che l’integrazione possa favorire il mantenimento di elevati valori di vitamina D anche in presenza di un soleggiamento ridotto.
Nel suo editoriale di commento, Ian R. Reid dell’Università di Auckland, ha fatto notare come bassi livelli di vitamina D in gravidanza siano stati finora associati a problemi come il diabete gestazionale, la pre-eclampsia, a minori dimensioni del feto rispetto alla sua età gestazionale e a una minore massa ossea dei nuovi nati. “Queste associazioni hanno sviluppato la credenza che la mancanza di vitamina D sia correlata con la comparsa di un’ampia gamma di anomalie patologiche, risultando nella difesa di una diffusa integrazione. […] In gravidanza e in altri contesti dovremmo muoverci verso un’intergrazione mirata con la vitamina D nelle persone che potrebbero avere basse concentrazioni, lontano dalla medicazione di massa, che è priva di un beneficio provato”.
Nel Regno Unito le linee guida sulla gravidanza al momento supportano l’integrazione con 10 µg (400 UI) di vitamina D per tutte le madri. La vitamina D è essenziale per il corretto sviluppo scheletrico e la salute delle ossa del feto, in quanto la sostanza partecipa all’assorbimento del calcio che ha luogo attraverso la placenta specie nell’ultimo trimestre di gravidanza. In Italia, le linee guida sulla Gravidanza fisiologica emesse dal Sistema Nazionale delle Linee Guida hanno finora indicato (l’ultima edizione risale al 2011) l’assenza di evidenze definitive circa l’utilità dell’integrazione con vitamina D in gravidanza per la salute materna e del bambino. Il suo uso è quindi raccomandato solo nelle donne a rischio in quanto provenienti da particolari zone geografiche caratterizzate da carenza di vitamina D, che si espongono raramente al sole o che seguono un’alimentazione povera di vitamina D.
Anche l’uso dell’integrazione con vitamina D per ridurre il dolore e rallentare la perdita di cartilagine nei pazienti con osteoartrite sintomatica del ginocchio non sarebbe supportato da sufficienti evidenze scientifiche, secondo uno studio pubblicato su JAMA da ricercatori dell’Università della Tasmania.
Lo studio clinico ha coinvolto 413 pazienti con osteoartrite sintomatica del ginocchio con bassi livelli di 25-idrossivitamina D, metà dei quali ha ricevuto un trattamento mensile con vitamina D3 orale per due anni, paragonato al controllo con placebo. I risultati hanno evidenziato l’assenza di cambiamenti significativi nel volume della cartilagine tibiale, misurato tramite risonanza magnetica, o nel dolore al ginocchio. I ricercatori australiani non hanno neppure evidenziato variazioni nei difetti o nelle lesioni del midollo osseo a livello della cartilagine tibiofemorale.
L’osteoartrite sintomatica del ginocchio colpisce circa il 13% delle donne e il 10% degli uomini a partire dai 60 anni di età ed è una patologia tutt’ora orfana di una cura definitiva.
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