Il ruolo del paziente nella ricerca sui farmaci, intervista a Stefano Mazzariol

Formazione, conoscenza degli iter regolatori ma soprattutto esperienza diretta, permettono ai pazienti di diventare una risorsa fondamentale per la ricerca in ambito farmaceutico. Ne parliamo con Stefano Mazzariol, vice presidente di Duchenne Parent Project Onlus

Negli ultimi anni si sta assistendo a una vera e propria evoluzione del ruolo del paziente. Che si sta lentamente – ma inesorabilmente – trasformando in un protagonista del sistema sanitario. E non è più un osservatore passivo di ciò che viene deciso in merito alla sua malattia e alle relative cure. Oggi i pazienti affetti da patologie croniche o degenerative possono ricoprire un ruolo importante anche all’interno della ricerca scientifica sui farmaci. Per capire meglio come questo sta accadendo e quali sono le implicazioni di questo coinvolgimento, abbiamo intervistato Stefano Mazzariol, padre di un bambino affetto da distrofia muscolare di Duchenne e vice presidente di Parent Project Onlus, che ha intrapreso il percorso di formazione europea di Eupati e si è certificato come ‘paziente esperto’.

Stefano Mazzariol

Prima di tutto, che cosa significa essere un ‘paziente esperto’?

Il paziente esperto è una persona che parte da un’esperienza di malattia propria o di un familiare, per affrontare un percorso di formazione molto intensiva e di livello tecnico importante, su tutto quello che è il percorso di ricerca e sviluppo di un farmaco, per poi mettere competenze ed esperienze a servizio della comunità. Questo significa che ha acquisito le nozioni necessarie a comprendere tutti gli aspetti di questo iter, dalla discovery di una molecola a tutta la parte pre-clinica, dal complesso sistema regolatorio alle procedure previste, dalla sperimentazione in laboratorio e sugli animali fino a tutta la parte che riguarda il percorso che deve fare un farmaco per essere testato sull’uomo e per arrivare infine all’approvazione per essere immesso sul mercato. Il modello Eupati è un percorso di formazione che fornisce una panoramica a 360 gradi della materia, e che si sviluppa su 14 mesi di corso.

Perché è nata la necessità di una formazione dei pazienti in questo senso?

Da qualche anno ci si è resi conto che i pazienti devono assolutamente diventare uno degli interlocutori chiave per quello che riguarda la ricerca scientifica in ambito farmaceutico. Storicamente il paziente o, come nel mio caso, la persona che si occupa di prendersi cura di un malato, ha sempre avuto un ruolo passivo. In passato al massimo aveva il compito di attenersi al protocollo di somministrazione se faceva parte di una particolare sperimentazione. Ora invece la visione generale sta cambiando, ed è ormai evidente che i pazienti possono assumere un ruolo attivo e dare un contributo importante alla ricerca scientifica in ambito farmaceutico. L’Ema, l’Agenzia Europea dei Medicinali, ad esempio, ha già inserito in molti dei suoi Comitati alcuni rappresentanti dei pazienti o delle organizzazioni dei pazienti. Si tratta di un primo grosso segnale di cambiamento. Inoltre il nuovo regolamento europeo n. 536 del 2014 sui Clinical Trials dice apertamente che i Comitati Autorizzativi per le sperimentazioni cliniche devono prevedere un numero minimo di “non addetti ai lavori”. È evidente quindi che ci si è resi conto che il paziente va a completare un tassello mancante nel puzzle complessivo della ricerca scientifica. Ad oggi i protagonisti della ricerca in ambito farmaceutico erano l’Industria, l’Accademia (importantissima, soprattutto per la fase di discovery) e gli Enti regolatori, le Istituzioni. Ma ora questo “quadrato” deve diventare un “cerchio”, includendo finalmente anche la voce dei pazienti. Il paziente conosce infatti cosa significa vivere con una patologia, con tutte le implicazioni non strettamente cliniche (ma anche sociali, ad esempio) che derivano dall’essere affetti da una malattia cronica o anche degenerativa. Per questo rappresenta un partner importante per la farmaco-vigilanza e per valutare la reale efficacia di una terapia. Vive sulla propria pelle i cambiamenti che una patologia e la conseguente terapia possono portare, e queste informazioni possono aiutare la ricerca scientifica e lo sviluppo di nuovi farmaci che tengano conto non solo dei benefici effetti sulla patologia, ma anche di quelli che possiamo definire “effetti collaterali”, e a tutti gli aspetti legati alla qualità della vita di chi assume un determinato medicinale. Ma chiaramente per potersi sedere a certi Tavoli il paziente deve anche avere una formazione tecnico scientifica adeguata. Per questo motivo è nato Eupati.

Quale ruolo assume quindi il paziente nel processo di ricerca e sviluppo dei farmaci?

Il percorso avviato da Eupati vuole arrivare non solo a tutelare il paziente, ma a renderlo protagonista di determinate decisioni. Si tratta di una rivoluzione culturale paziente-centrica, come l’ha definita l’Aifa a seguito del workshop organizzato da Eupati ‘Partecipazione attiva e non più passiva del paziente nel processo di ricerca e sviluppo dei farmaci’. Come già detto, l’Agenzia Europea dei Medicinali (Ema) ha già iniziato a coinvolgere in maniera attiva i rappresentanti dei pazienti nei tavoli tecnici con gli altri stakeholder per la definizione dei piani di sviluppo clinico e in molte commissioni e gruppi di lavoro, come anche nel management board dell’Agenzia. Aifa, intervenendo sul tema della partecipazione dei pazienti alla ricerca scientifica, ha portato un esempio molto interessante, citando un articolo comparso sulla rivista Jama, che analizzava una caso di mancato consenso informato arrivato alla Corte Suprema del Regno Unito nel 2015 (Montgomery v Lanarkshire Health Board). L’articolo riportava la denuncia di una donna affetta da diabete alla quale il suo ostetrico non aveva comunicato il rischio durante il parto di incorrere in una distocia della spalla, che alla fine ha provocato una grave anossia cerebrale del feto. Dal punto di vista della donna aver ricevuto in tempo informazioni complete sui rischi l’avrebbe fatta sicuramente optare per un parto cesareo. L’ostetrico che l’aveva in trattamento, insieme ad altri medici esperti, ha sostenuto che il conseguente rischio era molto basso, e che quindi era stato opportunamente non comunicato. La Corte Suprema del Regno Unito ha invece stabilito una cosa molto importante e cioè che lo standard per ciò che i medici devono comunicare ai pazienti circa i rischi, i benefici e le alternative di trattamento debba essere determinato non tanto da ciò che un operatore del settore ritiene necessario, bensì da quello che un paziente ben informato su tutto il processo di cura ritiene importante. Anche negli Stati Uniti molti stati hanno adottato il ‘reasonable patient standard’, che inquadra il processo di comunicazione del consenso informato dal punto di vista del paziente. Tutto questo pone l’accento su un aspetto fondamentale applicabile non solo all’ambito della comunicazione al paziente ma anche della ricerca scientifica: le criticità che possono nascere da una mancata visione di insieme, che è invece garantita dal coinvolgimento dei pazienti, che conoscono tutti gli effetti che un determinato farmaco o una terapia specifica possono avere sulla loro vita.

Nello specifico, come può il paziente contribuire alla ricerca scientifica?

Il paziente deve diventare un interlocutore, perché può essere un ottimo consulente per le Company, le Istituzioni e l’Accademia. Una delle cose più importanti che può fare un paziente è aiutare a definire gli outcome di una sperimentazione clinica, utili per comprendere quanto un’eventuale terapia in sperimentazione vada a influire sulla quotidianità e sulla qualità di vita di un paziente, che è molto importante per un futuro percorso regolatorio. È fondamentale che un farmaco o una terapia agiscano per migliorare la qualità della vita, e i pazienti possono essere ottimi consulenti in questo senso. Nel mio caso, ad esempio, mi è capitato di dare consigli ai clinici, agli sperimentatori, sulle strategie per fare della buona retention sui pazienti durante un trial (e cioè fare in modo che i pazienti non abbandonino la ricerca). Ci sono mille motivi per cui i pazienti possano diventare buoni collaboratori. Ma l’inclusione dei pazienti esperti non dovrebbe essere lasciata alla singola scelta caso per caso. È il momento affinché vengano definite delle regolamentazioni per far sì che possano entrare con regolarità nei tavoli di discussione e decisione.

Parent Project Onlus, di cui è Vice Presidente, è formata da un gruppo di genitori di bambini affetti da Distrofia Muscolare Duchenne e Becker, e ha l’obiettivo di migliorare la qualità della vita dei bambini e dei ragazzi affetti da questa patologia, non solo attraverso la raccolta di fondi per la ricerca, ma anche tramite la formazione e il sostegno alle famiglie. Tra le iniziative avviate c’è il registro italiano Dmd/Bmd, una banca dati online per pazienti affetti da Distrofia muscolare di Duchenne/Becker. Come funziona?

Il Registro rappresenta sicuramente un altro modo in cui il paziente può contribuire alla ricerca scientifica. È di proprietà delle famiglie che compongono l’Associazione a servizio della ricerca, in modo che possa funzionare meglio e prima. Il nostro registro è a supporto di studi clinici o anche epidemiologici. Si aderisce su base volontaria, e ogni paziente ha una propria scheda a cui accede con user e password, dove inserire i propri dati inerenti la diagnosi, lo stato e il decorso della malattia e le eventuali terapie. È importante che le schede siano sempre aggiornate, quindi chi non ha le competenze o il tempo per farlo può mandare i dati clinici alle nostre biologhe, che li inseriscono e gestiscono la scheda del paziente. Il registro contiene dati sia clinici che genetici, quindi è importante anche nel momento in cui dovesse esserci un reclutamento per una sperimentazione clinica.

Quali sono i prossimi passaggi necessari affinché il coinvolgimento del paziente sia ancora più diffuso?

È fondamentale che il paziente venga incluso in tutti i processi di ricerca. Stiamo cercando di istituzionalizzare il suo ruolo per farlo diventare una figura riconosciuta, in modo che ci siano anche regole di ingaggio precise. Però per fare questo è fondamentale che ci sia una formazione di alto livello, perché si andrà a lavorare su tematiche che richiedono una formazione quasi accademica. Il paziente esperto sicuramente prende spunto da una propria esperienza, ma deve fare un percorso di formazione specifico se vuole diventare il tassello mancante per far funzionare al meglio il mondo della ricerca.

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L’Accademia Europea dei Pazienti sull’Innovazione Terapeutica

La European Patients’ Academy on Therapeutic Innovation (Eupati) è un progetto paneuropeo composto da 33 organizzazioni, guidato dall’European Patients’ Forum, che ha come partner le organizzazioni dei pazienti, Università e Organizzazioni no profit, insieme a numerose aziende farmaceutiche europee. Il suo obiettivo principale è educare e formare, per aumentare la capacità e la possibilità dei pazienti di comprendere l’attività di ricerca e sviluppo dei farmaci e contribuirvi. Nell’ottobre 2014 ha lanciato il Corso di formazione per pazienti esperti (in lingua inglese) e dal 2016 ha lanciato una toolbox educazionale basata su Web che contiene materiale didattico in inglese, italiano, spagnolo, polacco, tedesco, francese e russo, per poter raggiungere i rappresentanti dei pazienti in tutta l’Europa. Ha inoltre costituito diverse piattaforme nazionali in diversi paesi in Europa, tra cui Austria, Francia, Germania, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Malta, Polonia, Spagna, Svizzera e Regno Unito, Danimarca, Slovacchia e Serbia, che riuniscono organizzazioni dei pazienti e partner accademici e dell’industria per discutere della formazione e del coinvolgimento dei pazienti nella ricerca e nello sviluppo dei farmaci. “In Italia è stata costituita l’Accademia dei pazienti Onlus”, specifica Mazzariol, “che rappresenta Eupati nel nostro Paese e si sta occupando di organizzare la formazione secondo il modello sviluppato da Eupati stessa. I primi tre corsi attivati a livello europeo hanno formato circa 150 pazienti esperti. Ora ci stiamo impegnando affinché il loro numero aumenti ancora, facendo formazione nelle diverse nazioni che fanno parte di Eupati, proprio per superare eventuali problemi linguistici e permettere a chiunque lo desideri di formarsi in questo senso. I corsi sono aperti ai pazienti ma anche a quelli che vengono definiti ‘care giver’, e cioè persone come me, che non stanno sperimentando sulla propria pelle la malattia, ma che si prendono cura di persone affette da patologie particolari e condividono con loro che cosa significa averci a che fare”.

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