Il principio universalistico sancito dall’articolo 32 della nostra Costituzione parla espressamente di “garantire cure gratuite agli indigenti”. Principio tanto nobile quanto lontano dalla realtà attuale, dove il Servizio sanitario nazionale sostiene costi crescenti legati a cure e strumenti per le cure innovativi con fondi a essi destinati che naturalmente non possono crescere di pari passo, pena il rischio di un vero e proprio dissesto finanziario per le casse pubbliche.
D’altro canto, il voler ridimensionare la spesa pubblica, con la messa a disposizione della popolazione di terapie e strumenti diagnostici obsoleti, contraddirebbe il principio sostenuto da fior fiore di economisti che hanno più volte ribadito la tesi che i soldi investiti in sanità non sono costi, ma, al contrario, investimenti, visto che il benessere dei cittadini contribuisce a far sì che essi, con il loro impegno in termini lavorativi e, quindi, di consumi, consentono la naturale crescita del Prodotto interno lordo del nostro come quello di qualsiasi altro Paese.
Oltretutto, dato che ricerca e innovazione in sanità non si fermano, fortunatamente direi, si rischierebbe di avere un gap competitivo tra chi vuole e può investire, immagino il settore dei privati molto attivi in questo campo, e il pubblico che magari vorrebbe, ma non può investire a causa delle scarse risorse messe a disposizione della spesa sanitaria. Una situazione insostenibile che andrebbe a compromettere il diritto alla salute di cui sopra e minerebbe alle fondamenta quel tanto bistrattato nostro Servizio sanitario nazionale che, con tutti i suoi difetti, è ancora un modello per le nazioni che approcciano un modello di cure universalistiche.
Ecco che, allora, le soluzioni al problema non sono tante e la strada principale passa attraverso la lotta agli sprechi o, per meglio dire, attraverso un uso più razionale dei mezzi che si hanno a disposizione. Da questo punto di vista, è ormai definitivamente accertato che potenziare la sanità presente sul territorio produce due grandi macro-classi di risparmi.
In primis, si tende a decongestionare l’afflusso ai plessi ospedalieri, dove notoriamente è più facile che si annidino gli sprechi, trattandosi, in molti casi, di strutture di grandi dimensioni dove il controllo e la vigilanza sul corretto uso dei fondi disponibili risulta difficile possano scendere nei minimi dettagli.
In seconda battuta, la sanità territoriale porta cure e strumenti diagnostici nella disponibilità più prossima dei pazienti, generando risparmi sociali oggi non più trascurabili, dato che, con il tasso di occupazione in crescita, la fascia di popolazione bisognosa di risposte terapeutiche non è più solo quella degli anziani, ormai inoccupati, ma anche di un’ampia fascia di pazienti cronici ancora nel pieno della loro attività lavorativa.
Su questo tema la rete delle farmacie territoriali, fatemelo dire, altro vanto del nostro Servizio sanitario nazionale, con la sua distribuzione omogenea sull’intero territorio garantita da una rigorosa pianta organica, è sicuramente lo strumento più utile ed efficace per offrire, con la sicurezza e con la “comodità” derivante dalla vicinanza al cittadino, farmaci e quindi terapie, ma oggi anche per proporre strumenti utili a diagnosticare eventuali patologie. Potrei citare vari esempi di modelli virtuosi sia per ciò che attiene ai farmaci sia per quanto riguarda il campo diagnostico, ma mi limito ad indicarne due per semplicità di esposizione.
Mi riferisco alla Dpc che, quando non è andata oltre il suo naturale ruolo e i lodevoli intenti per cui è stata creata, ha avuto il merito di saper coniugare l’esigenza dei servizi farmaceutici regionali di acquistare direttamente dall’industria prodotti ad alto costo con minore spesa con quello di non costringere il cittadino a recarsi presso l’ospedale o presso il distretto farmaceutico, magari solo in determinate ore di determinati giorni della settimana, per poter accedere alle proprie cure.
Mentre, sull’altro versante, cito le molte campagne di screening avviate da diverse Regioni per l’individuazione del carcinoma del colon retto, che ha permesso alla rete delle farmacie, per la verità con l’indispensabile supporto della distribuzione intermedia, di fungere da centri raccolta per laboratori pubblici, che diversamente avrebbero avuto notevole difficoltà a intercettare un range così elevato di cittadini per un’attività che ha nei numeri le più alte probabilità di successo.
Se su questi modelli, ormai già ampiamente sperimentati e validati, andiamo ad aggiungere l’ampia gamma di servizi aggiuntivi oggi realizzabili grazie alla telemedicina e agli strumenti sempre più performanti per una valutazione dei principali valori ematici e non solo, ecco che da un’integrazione ancora più significativa, non più esclusivamente relegata al ruolo di dispensazione del farmaco, della rete delle farmacie nel Servizio sanitario regionale sarebbe proprio quest’ultimo a trarne il maggior beneficio sia in termini di livelli di servizio, ma anche, in ragione dei principi precedentemente esposti, in termini economici.
Spetterà a ciascuno dei due attori fare la propria parte e prendere le opportune decisioni. Il Pubblico Decisore che dovrà predisporre al meglio il quadro normativo senza trascurare la legittima remunerazione per quanto la farmacia potrà offrire in questo scenario e la categoria che, dal canto suo, dovrà dimostrare ancora una volta la propria credibilità e la propria efficienza per tale nuovo genere di attività. In conclusione, direi, per entrambi, più che di un problema si tratta di un’opportunità. Basta saperla cogliere.