Nutraceutica: l’importanza nella prevenzione

Nell’intervista al Presidente SINut un approfondimento sulle categorie di nutraceutici oggi al centro dell’attenzione scientifica e uno sguardo sulle più promettenti prospettive di sviluppo

Un nutraceutico è un alimento con comprovati effetti benefici e protettivi sulla salute sia fisica che psicologica dell’individuo. I nutraceutici comprendono supplementi della dieta, alimenti funzionali e nutraceutici veri e propri, ovvero principi attivi che presentano attività terapeutica o di prevenzione. In Italia il settore della nutraceutica è in grande espansione, forte delle 1.800 aziende che lo alimentano con un totale di 32.700 prodotti circa: è proprio il nostro Paese, con un valore di 3,5 miliardi di euro, a guidare il mercato europeo, come dimostrano i numeri diffusi da Federsalus nel marzo dello scorso anno. Per l’83% questo mercato è concentrato in farmacia, canale che ha fatto registrare un + 4,5% in valore rispetto al 2018 (dati Iqvia aggiornati a luglio 2019) e concentrato intorno ai prodotti per il controllo del rischio cardiovascolare, per la salute dell’apparato urogenitale e per il riequilibrio della flora batterica intestinale. La ricerca sta puntando la sua attenzione su molti degli aspetti scientifici della nutraceutica, anche nell’ottica di uno shift dal concetto di cura a quello di prevenzione. Con Arrigo F.G. Cicero, docente presso l’Università Alma Mater Studiorum di Bologna e presidente della Società italiana di nutraceutica (SINut), inquadriamo i principali criteri che guidano lo sviluppo e l’impiego di questi prodotti, che puntano ad assumere un ruolo sempre più corposo nella tutela della salute.

nutraceutica
Il termine “Nutraceutica” viene dalle parole “nutrizione” e “farmaceutica” e indica la disciplina che indaga componenti e principi attivi degli alimenti con effetti positivi per la salute

L’aderenza alla supplementazione sull’outcome clinico

«Quando l’indicazione al trattamento nutraceutico è specifica e misurabile, l’aderenza influenza tantissimo. L’utilizzo di integratori spot, per brevi periodi, come spesso si vede fare nella pratica reale, tende a far sottostimare la percezione di efficacia del trattamento. Assumere venoprotettori a cicli brevi di due mesi, come spesso viene fatto (le famose due confezioni per volta), è praticamente inutile rispetto alla preservazione della salute del vaso».

La supplementazione della vitamina D

«La questione della vitamina D in nutraceutica è uno dei casi più semplici che abbiamo perché si tratta di una delle poche vitamine con dosaggi ematici davvero affidabili, riproducibili, effettuabili da tutti i laboratori. Pertanto, capire se una persona ha una carenza di vitamina D, di quale entità e di quanto debba essere supplementata è relativamente facile. Questo aspetto è utile, però, in condizioni francamente patologiche; nella popolazione generale partiamo dal presupposto che quasi il 50% è carente di vitamina D. In particolare, i soggetti più anziani, ma anche tutti coloro che svolgono attività lavorative al chiuso, cioè la maggior parte di noi. Una sorta di supplementazione a pioggia di vitamina D, dunque, potrebbe non fare male. Al di là delle patologie dell’osso, osteopenia e osteoporosi, esiste una serie di condizioni per le quali segnali forti ci indicano che la vitamina D può avere una sua utilità. Fra queste, anche condizioni estreme quali la gravidanza a rischio di patologie ipertensive. Dati molto recenti dimostrano come la supplementazione con vitamina D prevenga in maniera molto efficace una complicanza grave come la pre-eclampsia. Esistono anche altre condizioni, relativamente meno gravi, in cui vi è una sempre più chiara implicazione della vitamina D, come i deficit immunitari relativi, le lievi immunodepressioni: infatti, è stato scoperto che questa vitamina è implicata nei meccanismi che supportano l’immunocompetenza. Poi, c’è anche una quota di fantasia scientifica più spinta nella misura in cui sono disponibili dati interessanti preliminari e di tipo meccanicistico che sembrerebbero dimostrare la sua implicazione protettiva, come, per esempio, nello sviluppo di alcune neoplasie, dell’ipertensione arteriosa e dello scompenso cardiaco. Ma sono dati molto preliminari e poco comprovati da studi clinici prospettici».

Il rafforzamento dei dati dei trials clinici in nutraceutica

«Il rafforzamento dei dati dei trials clinici in nutraceutica può contribuire a contrastare la diffusione di contenuti non evidence-based, ma il problema fondamentale di questo ambito è che non esistono, o sono rarissimi, fondi pubblici a sostegno di una ricerca sull’attività dei singoli nutraceutici, praticamente inesistenti da parte delle industrie, che tendono a differenziarsi promuovendo studi su prodotti caratterizzanti. Questo sta limitando molto la grande ricerca in questo ambito: non voglio dire che non ci siano esempi, ma sicuramente sono benvenute tutte le iniziative che possono contribuire in termini di sicurezza, tollerabilità ed efficacia dei trattamenti nutraceutici. Oggi ci troviamo di fronte ad aziende che, compatibilmente con i loro budget, ed è una scelta assolutamente rispettabile, tendono a proporre piccole prove di efficacia di breve durata sul proprio prodotto finale e questo contribuisce a produrre informazioni scientifiche limitate che tali rimangono».

Qual è il quadro degli omega-3?

«Gli omega-3 hanno mantenuto un livello importante di evidenza in termini di prevenzione cardiovascolare. Quello che ne ha raffreddato gli entusiasmi è legato a due fattori. Il primo è associato a un problema di tipo merceologico: tantissimi prodotti in commercio hanno un bassissimo livello di purificazione e contengono materialmente livelli di omega-3 insufficienti rispetto alle dosi utili per osservare un’efficacia soprattutto metabolica. La riduzione dei trigliceridi si ottiene con dosaggi che vanno dai 2 grammi al giorno in su di acidi grassi polinsaturi purificati. Un aspetto che si discosta nettamente da molti prodotti in commercio, soprattutto della grande distribuzione. Il secondo problema è di tipo scientifico. Un paio di anni fa sono state pubblicate alcune metanalisi di tutti gli studi disponibili in merito che hanno concluso per una minor efficacia rispetto a quella precedentemente ipotizzata. Ma si è verificato un errore metodologico incredibile, perché sono state messe insieme tutte le fonti possibili di omega-3, dall’aumento dell’apporto di pesce nella dieta all’utilizzo di estratti di olio di pesce (compresi quelli non standardizzati), fino ai prodotti più efficaci. Questo ha prevedibilmente provocato una riduzione dell’efficacia media osservata e, di conseguenza, una diminuzione della soglia di interesse. Io credo che, ancora oggi, come anche suggerito da Efsa e dalle linee guida della Società europea di cardiologia e della Società europea dell’aterosclerosi, abbiano un ruolo in prevenzione cardiovascolare decisamente importante. Ancora una volta, questo tipo di integrazione ha senso quando viene protratta alla dose adeguata per anni, non per cicli di due-tre mesi l’anno».

Gli strumenti nutraceutici più efficaci contro le malattie neurodegenerative

«La maggior parte degli antiossidanti considerati per la prevenzione dell’insorgenza delle patologie neurodegenerative è stata studiata in modelli sperimentali, dunque anche animali ma non necessariamente umani. D’altra parte, l’osservazione di ciò che succede nei neuroni a valle della somministrazione di queste sostanze richiederebbe esami invasivi e non etici. Al momento, quindi, la disquisizione è puramente filosofica: nell’uomo si effettuano valutazioni indirette su marcatori generali di ossidazione nel sangue periferico. Presumiamo che proteggendo le cellule periferiche dall’ossidazione tuteliamo anche il sistema nervoso centrale, ma questo passaggio non è affatto scontato. Indubbiamente, esistono sostanze che rappresentano punti di particolare interesse dal punto di vista della preservazione dallo stress ossidativo del Snc. Molecole che stanno producendo risultati interessanti e attirando l’attenzione dei neuroscienziati. Fra queste, la curcumina, il resveratrolo, i gingkolidi e, probabilmente, anche i polifenoli del cacao. Dobbiamo tenere presente, però, che queste sostanze hanno diversi problemi, fra cui quello di garantire una biodisponibilità importante, superare la barriera ematoencefalica, avere bisogno di tempi di esposizione molto lunghi. Quest’ultimo punto richiede una filosofia della prevenzione che dovrebbe coinvolgere il cittadino. Per quanto riguarda sostanze naturali che hanno azione un po’ più rapida sul declino cognitivo già in atto, abbiamo a disposizione, invece, un armamentario diverso».

La mancanza di biomarkers e di test per la diagnosi precoce dei disordini cognitivi

«Oggi abbiamo biomarkers e test per la diagnosi delle demenze, ma manca l’attenzione dell’operatore sanitario e della società in senso lato. Chi ha problemi di declino cognitivo tende a vergognarsene, a mascherarli come comportamenti di tipo ansioso o depressivo e a trattarli come tali. Molto spesso non c’è sufficiente attenzione al riconoscimento del problema: i parenti lo negano, attribuendolo all’età che avanza. In questo, il farmacista potrebbe avere un ruolo importante, per esempio, nell’osservare il paziente che abitualmente va ad acquistare i medicinali e che nell’interazione risulta più impacciato del solito, dimentica ciò che deve comprare, lamenta le proprie difficoltà confidandole al farmacista, perché con lui si sente meno a rischio di medicalizzazione e meno intimorito dal rischio che egli possa riferire del suo problema a un parente vicino».