Questi farmacisti, che già versano i contributi all’Inps, ribadiscono un secco no a ulteriori esborsi destinati all’ente previdenziale di categoria. Un obbligo che deriva da una legge del lontano 1946, che oggi dovrebbe essere abolita
Camici bianchi e cartelloni. Così lo scorso 8 ottobre gli iscritti al comitato No Enpaf sono scesi in piazza a Roma per chiedere di abolire l’obbligo, per i farmacisti dipendenti o disoccupati, di versare i contributi all’ente previdenziale di categoria, l’Enpaf appunto. Una manifestazione preceduta da un’altra analoga, tenutasi il 9 aprile del 2019, in coincidenza con la fondazione del comitato stesso.
Per comprendere le istanze dei manifestanti, occorre accendere i riflettori sulla loro condizione. I dipendenti, in primo luogo. Ampia maggioranza della categoria (circa 70mila, a fronte di 20mila titolari), devono essere iscritti sia all’Inps in quanto dipendenti, sia all’Enpaf in quanto professionisti appartenenti a un Ordine. Sono, quindi, costretti a una doppia previdenza, che li obbliga a pagare entrambi gli enti pur percependo un’unica retribuzione. Un vincolo sancito dall’articolo 3 dello statuto dell’ente previdenziale di categoria, a norma dell’articolo 21 del decreto legislativo 233 del Capo provvisorio dello Stato del 13 settembre 1946, che rendeva inscindibili le iscrizioni all’Ordine e all’Enpaf. In pratica, chi risultava iscritto al primo veniva registrato d’ufficio anche al secondo. Contro questa anacronistica imposizione si sono scagliati gli organizzatori della manifestazione: «La normativa, che rappresenta un unicum a livello europeo, impone regole che non si trovano in alcuna professione sanitaria. Il pagamento di una seconda contribuzione è una grave ingiustizia che subiamo ormai da decenni e chiediamo pertanto che questa estorsione legalizzata venga finalmente fermata». A rendere la situazione al calor bianco, il basso reddito dei farmacisti dipendenti, il cui contratto nazionale è scaduto nel gennaio del 2013 e la cui paga oraria lorda è pari a poco più di 10 euro (10,40 euro). Peggio di questi ultimi stanno i disoccupati, che, pur non avendo un lavoro dietro il bancone, sono comunque obbligati a versare all’Enpaf la quota dovuta, che nel loro caso è pari al 15% di quella intera per massimo cinque anni complessivi di disoccupazione e aumenta al 50% oltre tale periodo.
I contributi da versare
In concreto, l’iscrizione all’Enpaf comporta il pagamento di un contributo fisso, non frazionabile, annualmente adeguato in base all’indice di inflazione, sul quale possono poi essere applicate le eventuali riduzioni consentite. Il problema è che le cifre di cui si parla non sono certo esigue. Nel 2020, per esempio, la quota intera richiesta ai farmacisti dipendenti è stata di 4.578 euro, di conseguenza quella domandata ai disoccupati è stata di 686,7 euro se il periodo di disoccupazione risultava inferiore ai cinque anni e di 2.289 euro se superiore a tale limite. Inoltre, il fatto che le quote da corrispondere non siano proporzionali al reddito fa sì che, paradossalmente, chi guadagna di più versi, in proporzione, meno di chi percepisce una cifra inferiore. Per il farmacista con un reddito pari a 20mila euro lordi annui, l’aliquota contributiva, ovvero la percentuale del contributo fisso sul reddito, sarebbe, infatti, pari a oltre il 20%; per il farmacista che guadagna 40mila euro tale aliquota scenderebbe a circa il 10%; per il farmacista che vanti un reddito intorno ai 90mila euro diminuirebbe fino al 5% circa. Come se non bastasse, l’Enpaf vigila attentamente sui contributi dovuti e non versarli nei tempi previsti può costare caro. Per riscuotere le cifre in sospeso l’ente fa, infatti, scendere in campo la temibile Agenzia delle entrate-riscossione (Ader) che procede a suon di cartelle esattoriali con interessi e more. Una mannaia sotto la cui lama è pericoloso finire. Ne sa qualcosa David, che ha scritto una lettera al Corriere della sera, pubblicata il 13 ottobre scorso, per raccontare come si è ritrovato in ginocchio. «L’Enpaf mi ha rovinato la vita con una cartella esattoriale di oltre 10mila euro» denuncia. Per lui l’incubo è iniziato subito dopo la laurea, per una banale svista. «Ero uno stagista e percepivo 600 euro al mese – racconta – perciò, come concesso dal regolamento dell’ente, avevo chiesto una riduzione contributiva per i primi due anni, che però non è stata accettata giacché l’avevo presentata con un lieve ritardo per motivi di salute. Oggi mi ritrovo un debito enorme, sogni e progetti distrutti […]. L’Enpaf non ha voluto sentire ragioni e ha preferito incassare […]. Ho dovuto cambiare città e lasciare un padre invalido per cercare un lavoro che mi consentisse di pagare l’Agenzia delle entrate».
In fuga dall’albo
Il risultato di tutto ciò è che i farmacisti che non sono più in grado di sostenere le gravose quote dell’ente previdenziale finiscono con l’allontanarsi dall’Ordine, e quindi dalla professione. Si calcola che nel 2018 si siano cancellati 2.467 farmacisti. Molti hanno lasciato le proprie testimonianze in rete, su blog o siti. Tra loro Lorenzo, che racconta: «Non riuscivo più a pagare i circa 2.300 euro dovuti a Enpaf ogni anno. Così, a malincuore ho dovuto cancellarmi dall’Ordine, e Dio solo sa quanto avrei voluto rimanere iscritto. Ora guido il taxi per mantenere mia moglie e mio figlio». Gli fa eco Barbara, con queste parole: «Sono stata costretta, con grande sofferenza, a cancellarmi dall’Ordine. Nel 2019 non ho avuto la fortuna di trovare lavoro in una farmacia e ho quindi dovuto pagare 2.300 euro all’ente previdenziale, dato che sono disoccupata da oltre cinque anni. Una grande delusione, dopo anni di studio e di sacrifici». Rammarico viene espresso anche da Paola: «è stato doloroso dover rinunciare all’iscrizione a un albo di cui ero onorata di far parte. Ho ricevuto una lettera dall’Ordine di Roma che mi intimava seccamente di non esercitare più ad alcun titolo la professione di farmacista».
L’intervento di politici e associazioni
Delle istanze di questi farmacisti si è fatta carico Chiara Gribaudo, vicepresidente del Gruppo Pd alla Camera, che ha anche annunciato l’intenzione di elaborare una proposta di legge in loro favore. «Si tratta di una grandissima ingiustizia e di una vessazione inaccettabile che penalizza le giovani generazioni, le cui assunzioni possono durare per brevi periodi o essere frazionate nell’arco dell’anno», dichiara. «Di fronte a questa situazione non possiamo fare finta di nulla». A dare manforte ai farmacisti anche alcune associazioni. Come Federcontribuenti, il cui rappresentante Stefano Ticozzelli ha commentato: «Occorre subito un rinascimento pensionistico o si verificherà una catastrofe sociale». Oppure come Cumulo e casse professionali, il cui presidente Marco Nicoletti si è espresso sulla necessità di abrogare la legge risalente a oltre settant’anni fa. «La normativa 233 è stata formulata poco dopo il termine della Seconda guerra mondiale» ha ricordato. «Allora aveva una sua valenza e precise finalità, oggi non più. È innegabile che nel frattempo il mercato del lavoro si sia profondamente modificato, quindi, quel modello organizzativo non può più essere il paradigma per governare la previdenza del terzo millennio. L’obbligo della seconda contribuzione per i farmacisti deve senza dubbio cessare, dato che questi professionisti già obbediscono al loro dovere costituzionale di sostenere una posizione all’Inps».
I problemi non finiscono mai
Oltre al problema della doppia contribuzione, in ambito previdenziale sussistono altre criticità. Una di queste è il fatto che l’Enpaf sia rimasto ancorato al vecchio sistema retributivo, senza adeguarsi a quello contributivo. Un’altra è quella dei contributi “silenti” (chiamati anche improduttivi). Può accadere, infatti, che i farmacisti dipendenti o disoccupati paghino le quote all’Enpaf senza, però, riuscire a raggiungere il numero di anni (pari a 30) di versamenti sufficienti per generare un trattamento pensionistico. Se ciò avviene, finiscono con il perdere quanto versato perché, da un lato, non sussistono le condizioni per effettuare la totalizzazione, il cumulo, la ricongiunzione dei periodi, in quanto questi ultimi coincidono con quelli maturati presso l’Inps, e dall’altro, a decorrere dal 2004, non è più prevista la restituzione dei contributi da parte dell’Enpaf a coloro che non hanno maturato i requisiti necessari per ottenere la pensione. Insomma, neanche l’ombra di un beneficio economico ai fini pensionistici per chi negli anni si è impegnato a effettuare il versamento delle quote. Il gruzzolo è così destinato a restare nelle casse dell’ente di previdenza, che, come un moderno Paperon de’ Paperoni, si arricchisce sempre di più.